a cura di Lucia Destino
Titolo: La bambina che amava troppo i fiammiferi
Autore: Gaètan Soucy
Genere: Narrativa
Editore: Marcos Y Marcos
Anno di Pubblicazione: 1998
Traduttore: Francesco Bruno
Illustratrice: Gaia Scarpari
“Mio fratello e io abbiamo dovuto prendere l’universo in mano una mattina poco prima dell’alba perché papà era spiratto all’improvviso.
La sua spoglia contratta in un dolore di cui restava soltanto la scorza, i suoi decreti finiti di colpo in polvere, tutto ciò giaceva nella stanza al piano di sopra da cui papà, ancora soltanto il giorno prima, ci comandava in tutto e per tutto.
Avevamo bisogno di ordini per non cadere a pezzi, mio fratello e io: erano la nostra malta.
Senza papà non sapevamo fare niente.
Da soli, riuscivamo a malapena a esitare, esistere, avere paura, soffrire.”
Un vedono folle e tirannico lascia, alla sua morte, due figli selvatici, totalmente impreparati ad affrontare il mondo e tutto ciò che è esterno rispetto alla loro immensa tenuta di campagna.
Inizia così questo romanzo ibrido un po’ thriller, un po’ horror e in parte simile ad una favola gotica.
La voce narrante che ci accompagna, la cui identità rimane sconosciuta al lettore fino a metà del romanzo, ha passato la maggior parte del suo tempo nella biblioteca del castello, imparando l’amore per le parole: “bambole di cenere”.
“Sono duri a morire i dizionari, come se niente fosse hanno la calma cocciutaggine del legno da cui sono nati, gli alberi non potevano farci regalo più bello.”
Si presenta a noi un mondo ricco di ossessioni e soprusi, l’atmosfera è drammatica, il linguaggio spesso crudo, persino rozzo, ma contemporaneamente puro e poetico.
Assomiglia ai racconti dei fratelli Grimm e ai cartoni di Tim Burton, regalandoci una lettura per nulla banale, che ci trascina verso l’orrore, ma anche verso la pietà.
“E allora, vi dirò, avrei voluto non rientrare mai, non tornare mai, restare per sempre nel sentiero della pineta, tra tenuta e paese, essere la divinità segreta della distanza che separa tutte le cose, la fatina dei sentieri che non portano a niente.”
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